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20160329

L'ARTE DI COLLEZIONARE MOSCHE Fredrik Sjöberg - Iperborea - Recensione di Sara Merighi

L'ARTE DI COLLEZIONARE MOSCHE Fredrik Sjöberg - Iperborea

"L'arte della limitazione è un'altra cosa, e forse non è nemmeno un'arte. Tutto quello che serve è il coraggio di vedere il proprio ambito di competenza a grandezza naturale. Alcuni allora vedono solo mosche, o certe mosche, in un determinato posto per un breve tempo." Altri dipingono solo le ninfee dello stagno del proprio giardino, altri cercano tutta la vita la particella di Dio, altri il tiro perfetto con l'arco. Forse la felicità è nel sapersi limitare? Ci ho pensato su un po' e mi sembra che no, non necessariamente. È solo una delle molte possibilità e anche Fredrik Sjöberg, l'autore de "L'arte di collezionare mosche", edito da Iperborea, la pensa come me : l'arte della limitazione "È solo un punto di partenza, o un punto fermo, ma comunque un punto. "Datemi un punto (d'appoggio) e solleverò il mondo ", sembra abbia detto Archimede. Per Sjöberg questo punto è Runmaro, un'isola, paradiso naturalistico, di 15 chilometri quadrati di fronte a Stoccolma, dove si è stabilito con la sua famiglia e dove trascorre il tempo ad alimentare la sua collezione di Sirfidi, e se non a sollevarlo, ad osservarlo e cercare di capirlo, il mondo. I Sirfidi o flower flies (in americano) o hover flies (in inglese) sono una famiglia di mosche che hanno tra le loro caratteristiche principali quella di essere facilmente scambiate per vespe. Nel mondo ne sono state individuate più di 5.000 specie. Troppe per poterle conoscere tutte. Per questo Sjöberg ha deciso di dedicarsi solo allo studio di quelle presenti a Runmaro. D'altronde "io a viaggiare mi stancavo soltanto, mi intristivo a volte, diventavo apatico. Desideravo tutto fuorché avventure. Fuorché gente che parlasse lingue che non capivo." (...) "È stato allora che mi è parso di capire che l'isola esercitava un'attrazione particolare su quegli uomini che sentono un bisogno di controllo e sicurezza". Se "L'arte di collezionare mosche " fosse un libro solo "sull'arte di limitarsi e sulla sua eventuale felicità " sarebbe già comunque un piacere leggerlo. La leggerezza e l'ironia con cui il suo autore riflette di come "Se non si ha un limite, tutto resta normale", gratificherebbe quei lettori, e io sono tra questi, che riescono a stupirsi e a fare proprie le riflessioni, anche le più evidenti, solo se le trova scritte. In realtà, però, i piani narrativi, contenuti all'interno di questo libro che, pubblicato per la prima volta in Svezia nel 2004 sta conquistando, da allora, lentamente e discretamente, lettori di Paese in Paese, sono molti di più. Uno di questi riguarda la ricerca quasi ossessiva che l'autore dedica alla vita di Rene' Malaise, entomologo nato a Stoccolma alla fine dell'800, inventore di una particolare rete per catturare mosche, diffusa tra gli entomologi di tutto il mondo. Di personalità diametralmente opposta a Sjöberg, Malaise, viaggiatore, avventuriero, esploratore di luoghi come la Kamcatka e la Birmania, scrittore divulgatore, geologo, sposato con l'esploratrice e scrittrice Ester Nordstrom persino collezionista d'arte negli ultimi anni della sua vita, lo affascina e lo strega: " il suo spirito fondamentalmente esuberante, quasi sfrenato, mi inquietava. C'era in lui qualcosa di sconfinato". E non può essere solo la differenza tra le due indoli ad attrarlo quanto, io penso, il riconoscere in Malaise una sostanzialmente simile ansia di conoscenza. Quell'ansia che Sjöberg cerca di controllare, limitando il suo studio ai 202 esemplari di Sirfidi individuati a Runmaro, di cui conosce tutti i particolari, la loro evoluzione, i periodi in cui appaiono, le piante che li attirano, "perché vola proprio in quel modo e in quel momento" e che, al contrario, in Malaise, invece, si espanse, senza limiti, in ogni parte del mondo e in ogni campo della conoscenza che lo incuriosì. E forse, allora, il punto nell' "Arte di collezionare mosche" non è il "limitarsi" ma il "conoscere" e forse la felicità non è nient'altro che il piacere e quella sensazione di pienezza che deriva dalla capacità di leggere anche solo una pagina dall'infinito libro della natura e "capire anche i testi scritti a caratteri minuscoli".


P.s. Fredrik Sjöberg sarà il 20 aprile al Teatro Parenti di Milano in conversazione con Paolo Nori.
Sara Merighi

20160222

ASTERIOS POLYP di David Mazzucchelli Coconino Press - Recensione di Sara Merighi

ASTERIOS POLYP
di David Mazzucchelli
Coconino Press
Se digitaste Asterios Polyp su Google trovereste una quantità di articoli e recensioni, soprattutto in inglese. Infatti quando il libro uscì negli Stati Uniti, nel 2009, fu considerato un caso letterario.
Non si può dire che sia avvenuta la stessa cosa quando venne pubblicato da noi, nel 2011, da Coconino Press. Per quanto mi risulta, a parte per una breve recensione su XL, l'inserto di Repubblica, se ne parlò e se ne scrisse solo sul web e a Lucca Comics, dove nel 2012, venne eletto fumetto dell'anno.
Il motivo è che Asterios Polyp non è un romanzo, ma è una graphic novel. Un fumetto. Un genere letterario che in Italia e' ancora da molti considerato minore, per ragazzi, sebbene abbia avuto sin dagli anni '70 dei precursori come Andrea Pazienza, Manara, Hugo Pratt, per citarne alcuni.
Chi frequenta le librerie e la lettura si sarà, invece, accorto quanto per creativita', complessità di storie e importanza di argomenti affrontati, per ricchezza di tratti e numero di artisti, i fumetti siano ormai un modo nuovo di fare letteratura, di scrivere romanzi e persino saggi (consiglio per esempio L'arte e Controstoria dell'arte).
Asterios Polyp di David Mazzucchelli è, in un certo senso, la "summa" di tutte le potenzialità della graphic novel. 
Al suo autore, ex disegnatore della Marvel Comics e poi della Dc Comics (per cui disegno' un intera saga di Batman), sono stati necessari dieci anni di lavoro per portarla a termine.
Il risultato è un libro che non è sufficiente leggere una sola volta e i cui tanti spunti interpretativi e psicologici sono al limite del virtuosismo.
La narrazione, effettuata attraverso flash back, racconta il prima e il dopo l'incendio, provocato da un fulmine, che brucia il palazzo newyorkese dove Asterios Polyp, colto professore universitario e stimato architetto, vive, lasciandolo, il giorno del suo cinquantesimo compleanno, solo con i vestiti che ha indosso e tre oggetti che riesce a salvare dal rogo. 
La voce narrante del libro è quella di Ignazio, fratello gemello di Asteryos, morto nella pancia della madre prima di nascere, presenza/assenza determinante nella vita del protagonista. 
Sulle due tracce narrative, il prima e il dopo, si inseriscono sogni, digressioni, riferimenti alla mitologia classica, che hanno lo scopo di raccontare la complessa vita interiore di Asterios, il suo senso di colpa per essere sopravvissuto al fratello, la sua paura della natura e di ciò che c'è di naturale nella vita, gli affetti per esempio, il suo bisogno di essere sempre migliore degli altri per giustificare di essere vivo.
Asterios, architetto di "carta", perché nessuna delle sue opere è mai stata realizzata, ha nella razionalità, nell'ossessione per la forma, nella necessità di categorizzare ogni aspetto della vita per sfuggire ai disegni incomprensibili della natura e del destino, le sue più evidenti caratteristiche. 
David Mazzucchelli traduce tutto questo anche visivamente.
Asterios è disegnato spigoloso, quasi sempre di profilo (greco, come la sua origine), con fessure al posto degli occhi, un fumetto (balloon) rettangolare, il carattere (lettering) in stampatello e almeno all'inizio, sempre immerso in un freddo azzurro, colore simbolicamente legato alla nostalgia, all'inquietudine e all'intelletto.
Hana, invece, la timida e insicura scultrice che incontra ad un party universitario e che diventerà sua moglie, ha grandi occhi, un balloon tondo e morbido, un lettering corsivo con piccoli caratteri. Si trasforma, però, in un fascio di filamenti rossi e accesi, come quelli delle vecchie stufe elettriche, nei suoi momenti di frustrazione, rabbia, nelle discussioni con Asterios.
Nei sogni, così come nei personaggi che Asterios incontra dopo l'incendio, quando, abbandonando tutto, anche la sua razionalità, viene a contatto con un mondo molto più concreto, apparentemente più semplice ma in realtà caldo di emozioni e di sentimenti, l'autore userà prevalenza di gialli. Il colore della saggezza, del calore delle emozioni, della rinascita emozionale, dell'energia.
Accanto ai colori, ai differenti lettering, alle forme del fumetto, alle forme dei personaggi anche l'impianto grafico della pagina può avere una lettura simbolica: le vignette hanno dimensioni e forme diverse, alcune non hanno una definizione spaziale, a simboleggiare un'astrazione del luogo e del tempo in cui si svolge la scena oppure a evidenziare un oggetto che, in questo modo, non ha i limiti imposti dalla vignetta.
Se da una parte questa cura, questa attenzione agli aspetti stilistici e simbolici è intrigante, perché stimola noi lettori alla ricerca dei differenti livelli di lettura, dall'altra, a mio parere, toglie un po' di spontaneità e rende un po' artificioso il racconto. Che è probabilmente l'effetto che l'autore voleva dare. 
Non molto riuscito  è l'omaggio che Mazzucchelli voleva fare alle sue probabili origini italiane chiamando la madre di Asterios Aglia Olio (e perché non Pizza Fichi o Caprese Mandolino?) ma gli perdoniamo questa piccola caduta nel luogo comune americano perché l'epilogo del racconto è, invece, assolutamente inaspettato, destabilizzante e ironico (con una quantità di letture simboliche).

Concludo definitivamente riportando una considerazione di William Faulkner che ho trovato mentre mi documentavo sulle graphic novel. 
Ancora non ho capito se sia una sua cupa previsione o un ironico augurio:
"I imagine as long as people will continue to read novels, people will continue to write them or vice versa; unless of course the pictorial, magazines and comic strips finally atrophy man's capacity to read and literature really is on its way back to the picture writing in the Neanderthal cave."   William Faulkner.
Sara Merighi

20160106

LA TIGRE di Walter Serner, Elliot Editore - Recensione di Sara Merighi

Iniziamo il 2016 con una bella recensione della nostra cara amica Sara Merighi, 
buon anno a tutti!
LA TIGRE di Walter Serner 
Elliot Editore
Pubblicato per la prima volta in Italia nel Novembre 2015 da Elliot edizioni con la traduzione di Elvira Lima, "La tigre" uscì in Germania nel 1925.
Il suo autore, Walter Serner, era un intellettuale di origine ebree proveniente da una benestante e colta famiglia ceca. Indirizzato a studiare legge, Walter trascorse i suoi anni universitari a viaggiare, frequentando ambienti intellettuali e bassifondi, dando concretamente corpo all'idea che, poiché nulla nella vita ha senso, tanto vale seguire i propri impulsi e soddisfare i propri piaceri. 
Scrittore di racconti, aforismi, paradossi, compose quello che poi divento' il manifesto dadaista, non preoccupandosi di pubblicarlo (finché non lo fece qualcun altro a proprio nome). Non ebbe mai riconoscimenti ne' in patria, ne' all'estero, fino a sparire in un campo di concentramento nel 1942.
Eppure, la pubblicazione de La tigre, il suo romanzo più importante, non passò inosservata in quella parte di Europa che, negli anni venti del novecento, stava vedendo nascere il partito nazionalsocialista di Hitler, tra i cui assunti più propagandati vi erano il dovere del singolo verso la comunità e la considerazione della cultura come elemento di decadenza delle società.
Il romanzo racconta l'incontro tra Bichette, bella, cinica e desiderata prostituta parigina e Fec, uno sconosciuto dandy, che vive di espedienti, incline all'alcol, disinteressato a tutto quanto lo circonda. 
Indifferente, apertamente scettico verso l'amore, per scelta o forse a seguito di qualche esperienza, Fec stimola l'orgoglio e la vanità di Bichette che decide di farlo innamorare, usando tutti i trucchi imparati nella sua dissoluta e complicata vita. 
Quando un vecchio amante di Bichette, da lei incastrato, esce di prigione e la cerca per vendicarsi, la coppia lascia Parigi e si rifugia a Nizza dove decide di organizzare una truffa che gli procuri del denaro ma soprattutto li distolga dalla loro noia. "Cosa non si fa, per amore della novità ! Cosa non si fa? Si fa tutto". 
Il sodalizio in bilico tra bugie, trucchi, droghe viene rotto da Bichette che, una volta portata a termine la truffa, si dilegua con i soldi. Fec, offeso nell'orgoglio per non essere stato lui a scomparire per primo, contraddicendo il suo sbandierato nichilismo, la insegue e pretende spiegazioni. Andrà incontro ad un destino paradossale, nel momento in cui sembrava aver trovato in quel rapporto di sesso, insulti, inganni, un motivo di vita.
Alla pubblicazione del romanzo, Serner venne accusato di condividere, lui stesso, valori e inclinazioni di quegli ambienti abietti che così realisticamente aveva descritto. Inoltre venne denunciato per oltraggio alla pubblica morale. Le scene di sesso nel romanzo, ancora oggi incredibilmente sensuali ed esplicite, erano solo uno dei motivi di tale accanimento.
Lo scrittore, senza pregiudizi e con sguardo talvolta ingenuo, racconta la mancanza di restrizioni morali di Bichette e Fec, il loro disimpegno sociale e l'uso della frode come unico scambio con gli altri. Anni prima che la psicanalisi prenda piede descrive la paura e l'incapacità di amare, la superficialità dei loro rapporti e la complessità dei meccanismi basati sull'orgoglio e la vanità con cui si avvicinano, si attraggono, si respingono. Lontano dai "valori" della società tedesca dell'epoca, di lì a pochi anni il libro venne censurato dai nazisti.
Non so se a Woody Allen sia mai capitata in mano una copia de La tigre. Non credo.
È un peccato. Avrebbe trovato la descrizione del professor Abe Lucas, protagonista del suo film di quest'anno, The Irrational Man. Non solo gli atteggiamenti, il nichilismo, il disinteresse alle donne e il loro attrarle, l'alcolismo, la modalità di ridare un senso alla sua vita infrangendo la legge ma persino l'epilogo. Scritto un secolo fa.
Sara Merighi

20151129

SCONTRO DI CIVILTÀ PER UN ASCENSORE A PIAZZA VITTORIO Amara Lakhous Edizioni e/o recensione di Sara Merighi

Su una sola cosa  tutti gli abitanti del condominio in piazza Vittorio sono d'accordo: Amedeo non può avere ucciso Lorenzo Manfredini, detto il Gladiatore.
Non Amedeo," buono come il succo di un mango", "un guaglione elegante e rispettoso", lui che tutti riesce a capire e tanti prova ad aiutare.
È solo Amedeo che riesce a mettersi nei panni di Parviz che è dovuto scappare dall'Iran, non ha più notizie di sua moglie e dei suoi figli, e si è cucito la bocca, non in senso metaforico, quando le autorità italiane non gli hanno creduto e gli hanno negato lo status di rifugiato politico.
Ed è solo lui che riesce a capire la frustrazione di Iqbal, a cui dei burocrati superficiali e menefreghisti hanno scambiato, sul permesso di soggiorno, il nome con il cognome, rifiutandosi di correggerlo, sovvertendo, così, non solo la tradizione bengalese ma togliendogli quel poco di identità che, insieme alla sua religione, lo tenevano legato, lì a Roma, in quel palazzone di Piazza Vittorio, al suo paese d'origine.
Ed è ancora Amedeo che rassicura Maria Cristina Gonzalez, chiusa in casa, senza permesso di soggiorno, a badare ad un'anziana non autosufficiente, e il cui unico legame con il Perù sono le telenovelas alla tv e la cui unica distrazione è il cibo.
La convivenza, come l'amore, è sempre un equilibrio precario e non è una questione di tolleranza. Amedeo non tollera ma capisce, ed è molto diverso, perché la tolleranza ha dei limiti, la comprensione non ne ha. 
La convivenza richiede anche empatia, che deriva dal greco empateia, en - dentro e pathos - dolore, sentimento.
E Amedeo, empatia, ne ha persino per Benedetta, la portiera napoletana, la cui maggiore preoccupazione è controllare che l'ascensore sia usato con cura dagli inquilini e che, sebbene si rifiuti di accogliere il saluto di Paviz, e non voglia vedere la disperazione della povera Maria Gonzalez, sente comunque sgretolarsi le sue certezze: "(...) ma se Andreotti se la faceva con la mafia, questo vuole dire che ho votato per la mafia e non me ne sono accorta? Questo vuole dire che la mafia ha governato l'Italia per decenni?"
I giornalisti dicono che Amedeo non è italiano. Lui che parla l'italiano meglio di Gennaro, discetta di commedia all'italiana con Johan Van Marten, lo studente olandese, tifa per la Roma nel bar di Sandro Dandini, lui che alle spalle ha una storia di dolore, prevaricazione e morte eppure non solo riesce a tenere a bada quella bestia ululante che è il dolore ma riconosce e rispetta quello degli altri.
Non è possibile che abbia ucciso qualcuno...
Amara Lakhous, scrittore e antropologo algerino trapiantato in Italia, non poteva meglio rappresentare, in questo immaginario, ma neanche troppo, condominio di piazza Vittorio, le barriere culturali e le dinamiche, anche le più banali e spesso amaramente divertenti, che rendono faticoso il vivere insieme.
La verità è che nessuno, italiano o straniero, è migliore o peggiore per motivo della sua provenienza, della sua religione o per le sue abitudini. 
Il problema, forse, è un altro, è l'identità, il Super- Io di ogni popolo.
Forse tutto sarebbe più semplice senza l'identità: "È meraviglioso potersi liberare dalle catene dell'identità che ci portano alla rovina. Chi sono io? Chi sei? Chi sono? Sono domande inutili e stupide."
E forse anche la felicità sarebbe più facile da raggiungere, lasciandosi la propria identità alle spalle: "La gente felice non ha età né memoria, non ha bisogno del passato". Chissà se israeliani e palestinesi un giorno se ne renderanno conto.
Sara Merighi

20151027

LA VITA COME UN ROMANZO RUSSO di Emmanuel Carrère - recensione di Sara Merighi

LA VITA COME UN ROMANZO RUSSO
Emmanuel  Carrère
Einaudi editore

Se qualcuno mi domandasse qual'è il mio autore preferito non saprei rispondere.
Ma se mi chiedessero, invece, quali sono i miei quindici autori preferiti probabilmente, ad oggi, tra questi ci metterei Emmanuel Carrère.
Quest'estate, a breve distanza l'uno dall'altro, mi è capitato di leggere "Il Regno" (Adelphi, 2015), rileggere "L'avversario" ( Einaudi, 2000) e divorare "La vita come un romanzo russo" ( Einaudi, 2009) e mi è accaduta una cosa strana, rara. 
Senza mai averlo neanche incontrato, sono arrivata a provare una familiarità, un'intimità, una vicinanza quasi amicale con questo scrittore tanto sofisticato quanto spiazzante.
Intellettuale francese, scrittore, sceneggiatore di serie televisive e regista così stimato da essere stato anche presidente della giuria al Festival di Cannes, Emanuel Carrère ha, nei suoi libri, un modo di scrivere o meglio una cifra stilistica, come si dice di solito, che mi viene da definire, spudorata.
In "La vita come un romanzo russo" che insieme a " Vite che non sono la mia " non raccontano di personaggi storici o viventi ma sono autobiografici, l'impressione che accompagna il lettore è quella che per l'autore la scrittura e la sua vita non esistano singolarmente, separate l'una dall'altra. Quello che la maggior parte delle persone tenderebbe a tenere nascosto, i momenti di depressione, le paure, i fallimenti sentimentali, i rapporti spesso dolorosi e complessi con le donne, a partire da quelli privatissimi con la propria madre, le crisi personali ma anche i successi sono esposti, ma non fintamente, come ormai è abitudine fare sui social network, ma in modo consapevole, come a dire al lettore " Non mi nascondo, non mi risparmio, tu mi concedi il privilegio di diventare mio lettore, in cambio ti racconto di me come se tu fossi il mio migliore amico, il mio confidente".
Così accade in questo romanzo in cui Carrère, con onestà e in modo faticosamente veritiero racconta gli avvenimenti di un periodo della sua vita, i suoi tormenti amorosi e la dolorosa discesa in un segreto familiare che affatica i rapporti tra lui e la madre.
Dopo aver terminato di scrivere "L'avversario", che lo aveva portato in contatto con la reale lucida follia di Jean-Claude Romand, condannato all'ergastolo per aver ammazzato moglie, figli, genitori (e il cane) per paura che scoprissero la finta identità su cui aveva costruito la sua vita, lo scrittore cerca di dimenticare quell'orrore e la fine del suo matrimonio attraverso l'amore per Sophie, una giovane donna per cui prova una fortissima attrazione sessuale ma la cui appartenenza ad un livello sociale e culturale diverso dal suo, lo imbarazza." Su questa faccenda sociale che ci avvelena mi dico e le dico una cosa un po' ipocrita. Dico che non è un problema mio, ma suo. (...) Ovviamente non è così."
Nello stesso periodo, inquieto, decide di andare a girare un documentario in uno sperduto paese russo nel tentativo di recuperare le radici della famiglia di sua madre e rappacificarsi con una storia che, come dice a sua madre " Ha ossessionato la tua vita, perciò ha ossessionato la mia, e se si va avanti in questo modo ossessionerà e distruggerà i miei figli, i tuoi nipoti".
Con il suo modo di scrivere diretto, coinvolgente, che nasconde anche un po' di esibizionismo (che fa il pari ad un po' di voyeurismo di noi lettori) l'autore sembra non risparmiarci nulla dell'inferno della fine di questo amore e della resa dei conti con il suo passato familiare. Sembra.
Ma a noi, lettori consapevoli, non devono sfuggire due considerazioni.
La prima è che nella natura umana cercare di mostrarsi agli altri migliori di quello che siamo, tanto più per uno scrittore che spudoratamente ammette (ed è per questo che lo adoro) "che dipendo così crudelmente dallo sguardo altrui".
Inoltre lo scrittore, quello vero, come tutti gli artisti, parte da un'idea ma ciò che poi produce, l'opera letteraria, prende vita propria, diventa qualcosa di diverso da ciò che si era prefissato. In questo sta la diversità dell'artista dall'artigiano.
Nelle pagine de "La vita come un romanzo russo", secondo me,  Emmanuel Carrère ha usato contemporaneamente sia la sua onestà, che lo ha spinto a svelarsi, sia ha subito la forza opposta, la paura del giudizio altrui. 
Ciò che le ha amalgamate è la forza dell'arte attraverso la quale l'opera, la letteratura prende una sua vita che prescinde dagli intenti di chi l'ha scritta.
Sara Merighi

20150907

I MIEI PICCOLI DISPIACERI di Miriam Toews, Marcos y Marcos - Recensione di Sara Merighi

I MIEI PICCOLI DISPIACERI
Miriam Toews
Edito da Marcos y Marcos

Il fatto che Miriam Toews, autrice de "I miei piccoli dispiaceri" edito da Marcos Y Marcos, uno dei libri più recensiti e anche più letti di quest'estate, si sia presentata, qualche anno fa', al Festival della letteratura di Mantova, bella, solare e con un compagno più giovane, fornisce un'indicazione sull'eccezionalità di questa scrittrice canadese. 
Non perché accompagnata da un giovane fidanzato (che invidia) ma perché non è comune riuscire a mantenere e comunicare la gioia di vivere, il calore, la fiducia negli affetti familiari e l'ironia presenti in lei e nei suoi libri se porti dentro il cuore un destino complesso e doloroso come il suo e quello della sua famiglia.
Cresciuta in una comunità mennonita (una comunità simile agli Amish, refrattari verso la modernità, molto religiosi e con una organizzazione della società e una mentalità profondamente chiusa e maschilista), Miriam Toews ( si legge Teiv) a 18 anni ha lasciato la famiglia senza, pero', poter sfuggire a quello che sembra un inesorabile destino familiare: il suicidio del padre, quello dell'amata sorella e di un numero di cugini. 
"La nostra famiglia sta cercando di sottrarsi a tutto in un colpo solo, perfino alla gravità. Non sappiamo neanche da che cosa scappiamo. Forse siamo solo gente irrequieta.(...) Forse siamo terrorizzati. Forse siamo pazzi. Forse il Pianeta Terra non è la nostra vera casa" scrive ad un certo punto nel suo ultimo romanzo " I miei piccoli dispiaceri."
Uscito in Giugno, il libro è il racconto, romanzato ma sostanzialmente autobiografico, dei mesi precedenti il suicidio, strenuamente cercato ed effettivamente portato a termine, di sua sorella, attuato con la stessa modalità ed esattamente 12 anni dopo quello del padre.
Elfrieda, pianista sensibile e talentuosa, colta e adorata da suo marito e dalla sorella Yoli, è bella e "affascinante e oscura e appariscente come una diva del cinema francese" ma irrimediabilmente tormentata e vulnerabile tanto da non sopportare più l'idea di vivere.
Yoli, la sorella più piccola, insieme alla madre e al marito di Elf, utilizzano tutto il loro amore, l'energia e la voglia di vivere per cercare di evitare quello che in fondo sanno sarà inevitabile. 
Nel mezzo di questo periodo di sospensione la vita, intanto, continua scorrere. Yoli deve gestire due figli da due uomini diversi, un paio di amanti, zia Tina, la madre " vivere con mia madre è come vivere con Winnie The Pooh. Ha un sacco di avventure, è sempre occupata a mettersi e a togliersi ingenuamente dai guai".
Deve combattere contro il sistema sanitario canadese che ha questa strana concezione per cui chi prova a suicidarsi deve essere punito e stigmatizzato invece che aiutato e compreso, deve affrontare non solo l'enorme dolore di vedere sua sorella che rifiuta la vita, ma anche decidere quanto sia comprensibile e attuabile la disperata richiesta di Elf di essere portata a morire in Svizzera.
In mezzo a tutto questo c'e' l'auto che si rompe e il meccanico, un vecchio compagno di scuola, che la invita ad uscire " Eravamo così vecchi. La parola no mi pervadeva i sensi e tutti i miei migliori istinti e ho detto dài, buona idea" e il suo lavoro di scrittrice, senza talento, di romanzi "equestri" per ragazzi.
In realtà è proprio lei, la sorella buffa, quella che da sempre si è presa sulle spalle il ruolo di far ridere, di sdrammatizzare le geniali ma fragili personalità di Elf e del padre a possedere il talento più grande. Quello di voler e saper affrontare la vita, un giorno dopo un altro, un'ora dopo l'altra, con ironia e gioia anche in mezzo alle tragedie più grandi. 
Tra le righe mi pare anche di avere trovato una ricetta di questa straordinaria filosofia di vita. "Calarsi nelle cose difficili velocemente, mettercela tutta e poi ritirarsi. Lo stesso vale per i pensieri, la scrittura e la vita." Anche io lo farò.
Sara Merighi

20150831

UN GIORNO QUESTO DOLORE TI SARÀ UTILE di Peter Cameron - Recensione di Sara Merighi

UN GIORNO QUESTO DOLORE TI SARÀ UTILE
 di Peter Cameron
Adelphi



Sarà faticoso, complicato e talvolta anche doloroso, crescere in una famiglia "disfunzionale", ma, a parte il fatto che purtroppo non è una condizione che si può scegliere, può accadere che, con tanto spirito di adattamento e l'aiuto di un buono psicologo, l'esperienza sia, in prospettiva, anche formativa. Comunque mai noiosa. 
Il vero problema sta nel fatto che chi si trova a doverci vivere, in tale situazione, normalmente, non è nello spirito giusto per coglierne ne' l'ironia ne' gli  insegnamenti. Magari lo farà qualche anno dopo, magari.
La famiglia di James, protagonista adolescente di "Un giorno questo dolore ti sarà utile" di Peter Cameron, pubblicato per la prima volta nel 2007 da Adelphi e diventato un film già nel 2010 (diretto da Roberto Faenza), è una tipica famiglia disfunzionale della upper class newyorkese. 
Al suo interno ciascuno recita con convinzione un ruolo, che è poi l'unico modo per non affrontare realmente i problemi. 
La madre, proprietaria di una galleria di arte moderna che espone per lo più spazzatura (nel vero senso della parola), è reduce dal suo terzo matrimonio, durato appena qualche giorno " (...) quattro giorni erano proprio desolanti. E semmai la curva dovrebbe andare nell'altro senso, i matrimoni dovrebbero migliorare, non peggiorare. Di questo passo mia madre, se mai ci avesse riprovato, sarebbe stata abbandonata all'altare". Il padre, affascinante e vanitoso uomo d'affari, è ossessionato dalle inclinazioni sessuali del figlio " Avresti dovuto ordinare anche una bistecca - gli dice al tavolo di un ristorante - non la pasta da sola. È poco virile", la sorella, Gillian, massimamente cinica ha ambizioni intellettualoidi e persino Miro', il cane, " si crede umano, non ama molto il recinto, per cui sta pazientemente sulla panchina accanto a me a osservare con bonaria condiscendenza le semplici maniere animali degli altri cani". 
James, invece, un ruolo prefissato non lo ha e non lo vuole. Non gli interessa essere accettato mimetizzandosi tra i suoi coetanei, imitandone i modi arroganti, accontentandosi della loro povertà di stimoli e, paradossalmente, per questo motivo, è considerato da tutti "disturbato".
Ora, essere considerati strani, da adulti, per esempio in un luogo di lavoro, è già faticoso ma esserlo da adolescenti, a scuola, è una vera tortura.
Credo di non sbagliarmi nell'immaginare che in James e nell'intero romanzo ci sia qualcosa, se non molto, dell'adolescenza di Peter Cameron stesso.
La sana ed equilibrata esigenza del protagonista di stare da solo, forse non molto comune in un adolescente, e la sua precoce consapevolezza " Sapevo di essere gay, anche se non avevo mai fatto niente di gay e non sapevo se lo avrei mai fatto. (...) riuscivo a malapena a parlare con gli altri, figuriamoci a farci sesso. Ero omosessuale solo in senso teorico, potenziale", non lo rendono meno confuso.
Mentre leggevo " Un giorno questo dolore ti sarà utile" mi hanno colpito alcune somiglianze con un altro romanzo, scritto più o meno nello stesso periodo da un autore americano, Jonhatan Safran Foer, dal titolo altrettanto memorabile "Molto forte, incredibilmente vicino". 
Anche Oscar, il protagonista di quest'ultimo, come James è un ragazzino cresciuto in una famiglia borghese newyorkese non troppo regolare, entrambi hanno un nonno o una nonna come unici amici, entrambi sono stati traumatizzati dagli eventi dell'11 Settembre 2001. E mi è venuto in mente che a New York, contrariamente a quello che dice Tolstoj, anche le famiglie infelici di inizio millennio un po' si assomigliano. 

Sara Merighi


20150807

UNA NOTTE SOLTANTO, MARKOVITCH di Ayelet Gundar-Goshen - Recensione dio Sara Merighi

UNA NOTTE SOLTANTO, MARKOVITCH
 Ayelet Gundar-Goshen
 Giuntina editore

Da cosa si giudica il talento nello scrivere un romanzo? 
Dalla fluidità nel raccontare, dall'ironia, dalla capacità di creare e descrive personaggi che sembrano in carne e ossa, dal padroneggiare gli intrecci del racconto, dal riuscire a mostrare la magia di ciascun destino?
O il talento nello scrivere non si può codificare ma si intuisce dal fatto che dopo aver letto le prime due pagine di un libro un sorriso ti compare sul viso, una leggerezza ti prende l'animo e sei contenta di aver un luogo, quel romanzo, dove avrai voglia di tornare per i giorni successivi?
Non saprei dirlo. 
In "Una notte soltanto, Markovitch" edito da Giuntina e scritto da una giovane autrice israeliana di appena 32 anni, Ayelet Gundar-Goshen, tutte queste caratteristiche le si trovano insieme.
Come nella "Casa degli spiriti" e in "Cent'anni di solitudine" il racconto della Gundar-Goshen abbraccia non una individualità ma un'intera comunità e non una sola vita ma più generazioni, mostrando come i disegni del destino quasi mai si esauriscono nel tempo di una vita e come le vite di tutti gli uomini e le donne fanno parte di un racconto più vasto.
Quelle di Yaakov Markovitch, di Zeev Feinberg, di Sonia, di Bella dei loro figli e degli altri abitanti del villaggio in terra d'Israele, cioè in quello che allora non era ancora lo stato israeliano ma un protettorato inglese, si intrecciano con la nascita dell'antisemitismo in Europa, con la Seconda Guerra Mondiale e la guerra di Indipendenza di Israele stesso.
Sono storie di amori lunghissimi, di traumi, di guerra, di sensi di colpa, di atti di eroismo, di passioni e di matrimoni infelici e ineluttabili. 
Come quello di Rachel Mandelbaum. Scappata dall'Europa perché inseguita dal "rumore di cranio fracassato" di un vecchio ebreo che alcuni ragazzini in una strada di Vienna si divertivano a torturare, e raccolta, al suo arrivo al porto di Haifa, da un macellaio stanco della solitudine, che ne fa sua moglie.
"Nel suo abito verde gli pareva una bottiglia buttata in alto mare e rigettata sulla spiaggia; lui, l'unico superstite, l'avrebbe raccolta e ne avrebbe letto il contenuto. La portò a casa e la sposò, ma non riuscì mai a decifrarne il contenuto". 
O come quello di Bella Seigerman, giovane donna di una bellezza paragonabile ad una dea dell'Olimpo, amante della poesia e dei poeti, che, per scappare dall'Europa, accetta di sposare, in un matrimonio che doveva essere fittizio e temporaneo, il mediocre e anonimo Yaakov Markovitch a cui sara' poi obbligata a rimanere, infelicemente, legata tutta la vita.
"Yaakov Markovitch accese la stufa a petrolio, convinto che si sarebbero riscaldati. Sbagliava. Dal momento in cui Bella fece il suo ingresso in casa di Yaakov Markovitch il gelo vi regnò sovrano".
L'autrice, attingendo probabilmente anche da racconti tramandati, interpretandoli e arricchendoli grazie ai suoi studi di psicologia riesce a rendere i personaggi vivi, realistici e nello stesso tempo magici.
Così come nei libri di Marquez, dell'Alliende, di Jorge Amado, della Mastretta anche in "Una notte soltanto, Markovitch" la magia emerge perché i personaggi non filtrano la vita e la realtà solo attraverso la cultura e la razionalità, ma sono ancora guidati dalla passione, dall'immaginazione, dal rapporto stretto con la natura e con la propria spiritualità. 
E forse un po' di magia  è in effetti necessaria sia nella vita sia nella letteratura quando l'orrore sembra impossibile da debellare.

Sara

20150711

QUI di Richard McGuire, Rizzoli Lizard - Recensione di Sara Merighi

QUI di Richard McGuire

Io adoro leggere recensioni. È raro che compri un libro senza averne prima letta una e l'acquisto di impulso, che pratico con passione in altri campi, non amo praticarlo per i libri. 
Quando mi capita di acquistare un libro senza avere letto recensioni è perché me lo ha consigliato una persona dei cui gusti letterari mi fido. E di solito funziona.
Se c'è un libro, però, per cui mi sento di consigliare caldamente una buona recensione è sicuramente QUI, di Richard McGuire, edito da Rizzoli Lizard.
Non mi vergogno ad ammettere che la prima lettura delle 300 pagine di questa graphic novel mi ha lasciato completamente interdetta. 
Avevo capito che mi sfuggiva qualcosa, se QUI è considerato il caso letterario dell'anno, almeno per quel che riguarda i fumetti, e, sebbene affascinata dalla sua originalità, solo dopo essermi documentata ho potuto veramente apprezzarlo.
Intanto si tratta di un "racconto" che parte da 3 miliardi di anni prima di Cristo e arriva almeno sino al 22.175 dopo Cristo. 
Se l'intervallo temporale è amplissimo, l'intervallo spaziale in cui i disegni sono ambientati è, invece, quello di un salotto, o, in alternativa, dello spazio fisico da questo salotto occupato. (3 miliardi di anni fa', per esempio, dove sarebbe sorto il salotto vi era solo un ammasso di lava e gas). 
Ogni doppia pagina di QUI ha, infatti, come elemento comune il salotto di questa grande casa americana costruita all'inizio del '900 (1907 per l'esattezza) o la porzione di spazio che vi era prima della sua costruzione o quella che presumibilmente ci sarà dopo, in futuro. Sovrapposte sulle due pagine, una, due, quattro, cinque, dieci, finestre che "fotografano" cosa accadeva o accadrà in differenti intervalli temporali, in quello stesso luogo. Ogni immagine riporta in alto a sinistra l'anno in cui si svolge l'azione.
L'autore usò per la prima volta questo tipo di rappresentazione in un un fumetto di appena 36 tavole intitolato appunto HERE, uscito nel 1989 sulla rivista Raw (diretta da Art Spiegelmann). In quelle prime tavole provava ad immaginarsi chi e come aveva vissuto prima di lui nella casa in cui aveva appena traslocato, e per farlo aveva deciso di utilizzare un'impaginazione "a finestre", come quella vista nei primi sistemi operativi Windows, che si stavano diffondendo.
Già allora l'impatto di questa intuizione creativa era stato molto grande: per la prima volta in un fumetto era stato completamente abbandonato il modello narrativo lineare. 
Mantenendo un'unità spaziale, la stessa stanza, il racconto, se così si può chiamare, perché in realtà non esiste racconto, diciamo le azioni, sono svolte su diversi piani temporali, legati tra di loro solo concettualmente, senza un unico protagonista.
La stessa idea è stata ampliata e incredibilmente arricchita nelle 150 doppie tavole del nuovo QUI, creato da Richard McGuire in dieci anni di lavoro.
Alla prima lettura ciò che viene spontaneo è cercarvi un filo logico, una consequenzialità, ma io non l'ho trovata, almeno non in apparenza.
Sarebbe troppo scontato. 
In realtà l'autore si è sentito libero di giocare.
Talvolta l'ha fatto con dei temi facilmente riconoscibili, per esempio, una festa danzante con gli amici nel salotto di casa nel 1971, nella finestra accanto un'altra festa ambientata nel 1955, e una ancora, nello stesso salotto, ma nel 1954, oppure, uno specchio che si stacca dal muro del salotto nel 1949, nella finestra accanto un uomo che cade dalla scala nel 2014, la sua latta di vernice che cade per terra nel 1990, la pianta che teneva in mano lanciata per aria nel 1926  e infine, a contorno, due finestre con imprecazioni : una nel 1625 e una nel 1852. 
È un gioco ma anche un voler universalizzare la nostra vita. 
La vita di ciascun essere umano nella sua unicità è, infatti, anche un flusso di gesti e avvenimenti che si ripetono sempre uguali, di generazione, in generazione.
Altre volte, invece, l'autore si è divertito a creare l'impressione che ciò che accade sullo sfondo interagisca con ciò che viene raffigurato nelle finestre: 1986, signora che sonnecchia sdraiata sul divano mentre suona il campanello di casa; 1609, due nativi americani che, mentre amoreggiano nel bosco che sorgeva prima del salotto, sono disturbati dal suono del campanello.
Altre volte ancora, le azioni nelle finestre si richiamano a distanza di tavole.
Ci si potrebbe passare delle ore a cogliere, disseminati tra le tavole, i legami, i giochi, i richiami alla storia americana (a me per lo più sconosciuta), a gustarsi la ricerca iconografica relativa all'arredamento del salotto, ai vestiti, a riflettere su come l'autore si immagina il futuro della specie umana e della Terra (realta' virtuale e tecnologia sempre più spinte e poi, sembrerebbe, una natura meravigliosa e rigogliosa che riprende il sopravvento, probabilmente in una Terra che ritornerà senza uomini).
Ecco, una mente aperta alle suggestioni e/o possibilmente  una buona recensione, non necessariamente questa, sono, a mio parere, gli strumenti migliori per godere di questa straordinaria graphic novel.
Sara Merighi

20150612

QUANDO SIETE FELICI, FATECI CASO Kurt Vonnegut - Recensione di SARA MERIGHI




"Capitava che d'estate ce ne stessimo seduti all'ombra di un melo a bere limonata, e zio Alex interrompeva la conversazione per dire "Cosa c'è di più bello di questo?" 
Dallo zio, Kurt Vonnegut apprese uno degli insegnamenti che più amava ripetere nei discorsi ufficiali ai neo laureati quando veniva, soventemente, chiamato dalle università americane: l'importanza di riconoscere, onorare e fissare nella memoria quei brevi attimi in cui nella nostra vita si poggia la felicità. 
"Quando siete felici fateci caso" edito da Minimum Fax, è la raccolta di alcuni di quei discorsi, dal 1978 al 2004.
Sono discorsi un po' diversi da quello, famoso, di Steve Jobs a Stanford. 
Vonnegut non prende se stesso come esempio, ne' racconta la propria esperienza esaltando la platea con la propria straordinaria vita.
Si rivolge, invece, a quei giovani uomini e donne pronti sul trampolino di lancio, già con sufficiente adrenalina e testosterone in circolo, cercando di accompagnarli dentro una sfera più intima, di metterli a contatto con i loro principi e le loro coscienze prima che, dal giorno dopo, si lancino nella mischia della competitiva società americana.
Gli parla di religione, di bontà, di odio, di Gesù Cristo " Se le cose che Gesù ha detto erano giuste, e in buona parte anche bellissime, che differenza fa se era Dio oppure no?".
Gli parla di matrimonio, o meglio di crisi del matrimonio "Il matrimonio è in crisi perché le nostre famiglie sono troppo piccole. Un uomo non può rappresentare un'intera società per una donna, e una donna non può rappresentare un'intera società per un uomo".
Li porta a riflettere sull'importanza di essere parte di una comunità, sul razzismo, sul riscaldamento globale, sulla noia e solitudine, sul blues "il dono inestimabile che hanno fatto gli afroamericani al mondo intero mentre erano ancora in schiavitù" e su un sacco di altri temi.
In modo schietto e sincero parla ai giovani non di attualità (il discorso dell'ottobre 2001, per esempio, non cita in nessun modo la caduta delle torri gemelle) ne' di come raggiungere il successo nella vita ma di ciò per cui vale la pena vivere.
Convinto del fatto che "Solo le persone bene informate e di buon cuore possono insegnare agli altri cose che verranno ricordate e amate per sempre. I computer e la tv non lo fanno." (1999)
Così, quando il 30 aprile, in occasione della serata di inaugurazione dell'Expo di Milano, in diretta in Mondovisione su Raiuno, Paolo Bonolis ha citato Kurt Vonnegut parafrasando il titolo del libro in un "Quando siamo bravi facciamoci caso" a me, come si suol dire, è venuto un colpo.
Il popolare presentatore voleva, in modo secondo lui colto, auto celebrare il genio, la bravura e l'affidabilità italiche, essendo però due volte in cattiva fede: prima di tutto per il fatto, noto a tutti, che in realtà si è arrivati all'apertura di Expo non solo in grande affanno, ma senza neanche aver terminato parte dei lavori, in secondo luogo perché era evidente che ne' lui ne' i suoi autori avevano mai letto il libro di Vonnegut, più facilmente ne avevano notato il titolo in qualche vetrina del centro. Se lo avessero letto, forse, si sarebbero fatti uno scrupolo in più.

20150501

PROBABILMENTE MI SONO PERSA Sara Salar Edizione Ponte33 recensione di Sara Merighi


PROBABILMENTE MI SONO PERSA
Sara Salar

Nata dalla passione per la cultura persiana delle due fondatrici, la casa editrice Ponte 33 ha come scopo di far conoscere in Italia la letteratura contemporanea in lingua farsi. 
Sebbene il farsi o persiano sia parlato oltre che in Iran anche in Afganistan, in Tagikistan, in Uzbekistan, in realtà, il catalogo di Ponte 33, ad oggi, prevede solo libri di scrittori/scrittrici iraniani.
L'Iran, d'altronde, gode di pace da 25 anni (l'ultima guerra, quella con l'Iraq, e' terminata nel 1988) e pur essendo di religione mussulmana e avendo una forma di Repubblica, direi, unica al mondo, in quanto il presidente del Consiglio e il Parlamento devono seguire le linee guida di un capo religioso e di un Consiglio dei Guardiani che approvano preventivamente le candidature di ciascun politico, è un Paese che per cultura, storia, costumi, mentalità laica, è molto più simile ai paesi occidentali piuttosto che a quelli orientali.
Non è probabilmente il contesto adatto per approfondire tali affermazioni ma per coloro che sono interessati ad avvicinarsi a questo straordinario Paese, che, visti finalmente gli esiti positivi dei negoziati di Ginevra, è sulla strada per diventare uno degli stati protagonisti della scena politica e culturale dei prossimi anni, basti dire, per prima cosa, che l'Iran non nasce mussulmano ma viene conquistato e sottomesso dagli arabi intorno al 644 d. C. e che tale religione, pure sostituendo l'antico Zoroastrismo ne è stata da questo fortemente contaminata.
Inoltre i mussulmani iraniani sono sciiti, gruppo che costituisce solo il 10-15% della popolazione mussulmana totale e presenta diversità dottrinali, nella concezione del clero, della funzione della donna nella religione e nella società, piuttosto rilevanti rispetto ai più estremisti sunniti. 
A queste considerazioni va aggiunto che le contaminazioni e l'eredità dell'antica Persia sono presenti nella cultura occidentale molto più di quanto ne siamo consapevoli.
Persiana, per esempio, risalente a Ciro il grande, e' la prima carta internazionale dei diritti dell'uomo, persiana la tradizione dell'albero di Natale e la data del Natale, l'uso rituale del vino, l'idea dell'Immacolata Concezione, la prima macchina calcolatrice, l'algoritmo, i fondamenti di algebra e trigonometria, l'astrolabio, l'invenzione degli scacchi, del polo (l'immensa piazza di Isfhan era un enorme campo da polo), la ruota idraulica, il mulino a vento, l'arco rampante, l'origine della maiolica, persiane erano e sono tuttora alcune delle migliori produzioni di tappeti e dei più raffinati miniaturisti al mondo, persiani alcuni degli studiosi e poeti più importanti dell'antichità : Avicenna, Hafez, Rumi. 
La svolta estremista, risalente alla presa di potere nel 1979 dell'ayattolah Khomeini e dei suoi seguaci, è stata resa possibile da un complicato intreccio di interessi economici, errori e pesantissime ingerenze di Inghilterra e Usa iniziate già dalla fine della seconda guerra mondiale, che avevano lo scopo di assicurarsi lo sfruttamento degli enormi giacimenti di petrolio e di non consentire all'Iran di auto determinarsi. In maniera scellerata e poco lungimirante, nel momento in cui la popolazione si stava ribellando al governo di Rehza Pahalavi, scia' laico e illuminato ma autoritario e dispotico, le due potenze occidentali invece che sostenere la resistenza interna, a loro giudizio troppo orientata ad idee socialiste, hanno di fatto armato gli estremisti per poi di lì a poco esserne da questi cacciati.
Tale violenta svolta, però, incredibilmente, non è riuscita ad annientare totalmente la società civile e il fermento culturale Iraniani.
Con una popolazione di 80 milioni di abitanti, dei quali il 60% sotto i 30 anni, un altissimo livello di scolarizzazione, una grande curiosità e voglia di conoscere ciò che accade oltre i confini del loro paese, confini che gli adolescenti e i ragazzi violano, almeno virtualmente, aggirando la censura e navigando su internet e social network, la società iraniana continua a far nascere intellettuali, registi, scrittori, poeti che dall'interno o dall'esterno cercano di fare crescere le coscienze e contemporaneamente di consentire a noi di conoscere la loro realtà.

Una di queste è Sara Salar, l'autrice di "Probabilmente mi sono persa".
Il romanzo è ambientato a Teheran dove una giovane donna, mamma e moglie, racconta e affronta un periodo di confusione e depressione, come capita, io penso, prima o poi alla maggior parte di noi, soprattutto donne, almeno una volta nella vita. Alla protagonista, di cui non conosciamo il nome e nelle ultime pagine se ne capirà il motivo, cade addosso la consapevolezza di avere fatto delle scelte, ad un certo punto della propria vita, che l'hanno estraniata da se stessa. 
Forse dovute alla paura di uscire dalle consuetudini, o al senso di inadeguatezza che viene ancora spesso inculcato nelle donne e non solo in Iran, tali scelte, sposarsi con un uomo dalla solida posizione ma che poco ha a che fare con lei, lasciare gli studi, l'hanno portata a non riconoscersi più. 
A fatica, ricordando in modo ossessivo e parecchio paranoico, i momenti della sua giovinezza, l'amica del cuore, le possibilità che ha avuto e che non ha colto, riesce a capire che oramai non può più tornare indietro ma, forse, solo accettarsi. 
La scrittura sincopata, nevrotica, con una quantità di puntini di sospensione usata da Sara Salar, per quanto a tratti un po' fastidiosa, ha il pregio di fare entrare il lettore nel profondo spaesamento e confusione della protagonista.
Lo smarrimento presente sin dal titolo e poi per tutto il romanzo è forse quello di una generazione di giovani cresciuti in una società schizofrenica: da una parte costretti a seguire apparentemente una serie di regole, leggi e precetti imposti da un governo corrotto e dalla doppia morale che propina un'interpretazione arcaica ed invasiva della religione, dall'altra parte attirati e ammaliati da una modernità, da un'aria di libertà che le maglie della censura non riescono a fermare.
Sara Merighi

20150407

L'ESERCITO DELLE COSE INUTILI di Paola Mastrocola Einaudi editore recensione di Sara Merighi

 L'ESERCITO DELLE COSE INUTILI di Paola Mastrocola
Einaudi editore
Variponti è il paese delle cose inutili. Cosa c'è di più inutile di un vecchio asino che non ha più la forza di lavorare? Di un libro che è uscito di catalogo? Dello stare a guardare la luna tutta la notte, del trapiantare primule da un prato all'altro, dell'occupare una panchina...
Eppure tutti sembrano felici. Sembrano.
D'altronde perché per essere felici si dovrebbe essere utili? Scrivere poesie è utile? Dipingere è utile? Raccogliere conchiglie in riva al mare è utile?
Qualcuno direbbe di no. Giorgio Manganelli diceva che lo scrittore, per esempio, sceglie in primo luogo di essere inutile.
Qualcuno direbbe di sì. L'arte, come emblema di ciò che è reputato inutile, riesce a comunicare, a risuonare con la nostra anima, la nostra parte divina e universale, nascosta sotto strati di condizionamenti e di difese e a liberarci. A farci sentire, anche solo per poco, migliori.
Come l'amore. (A questo proposito, l'amore è utile o inutile?)
Ma al vecchio e inutile Raimond, protagonista de "L'esercito delle cose inutili ", che non riesce a condividere l'apparente felicità degli abitanti di Variponti, vengono dei dubbi, delle malinconie.
"Tutti dormono, io no, io guardo le prime stelle che si affacciano ad annunciar la notte. Mi viene sempre una strana malinconia a quell'ora, penso alla vita che se n'è andata e io forse non l'ho presa. Non l'ho presa abbastanza. Mi pare di aver lasciato qualcosa di incompiuto, ma non so bene cosa. (...). C'è quella poesia di Pascoli che dice La parte, sì piccola, i nidi nel giorno non l'ebbero intera. Né io...e che voli, che gridi mia limpida sera."
Ma importa sapere se siamo utili o inutili? 
"I piantatori di primule (...) Chi sono io, poi, per dire chi è utile e chi è inutile? (...). Qualcosa avranno ben da fare, anche loro, su questa terra. Qualcosa che nessuno sa cos'è, d'accordo. Ma importa?"
Forse questa identità che ci costruiamo di persone utili ci serve solo per trovarci un posto, una riconoscibilità nella società. 
Il problema è che quando ci viene a mancare la nostra supposta utilità, l'infelicita', la depressione ci toglie la voglia di vivere.
Allora non è forse sufficiente sapere che se siamo qui, se siamo vivi, fino a quando lo saremo, è perché siamo necessari al mondo?
Come un seme che ha già al proprio interno il suo essere un ciliegio o un frassino o una rosa anche noi, al momento della nostra nascita, abbiamo all' interno la nostra natura, la nostra essenza. Riconoscendola e assecondandola, compito assai difficile perché non bisogna mai perdere il contatto con noi stessi, diamo il nostro contributo all'equilibrio dell'universo.
"E allora mi è presa una gran voglia di invecchiare". Dice Raimond. " (...) Mi vergogno un po' di un desiderio così assurdo alla mia età. (...) Quante notti ancora vorrei vedere? Tante." 
Sara Merighi 

20150316

SOSTIENE PEREIRA di Antonio Tabucchi adattamento Marino Magliani, disegni Marco D'Aponte - edizioni tunue' - recensione di Sara Merighi

SOSTIENE PEREIRA  di Antonio Tabucchi 
adattamento Marino Magliani, disegni Marco D'Aponte -

Nel 1994, quando fu pubblicato "Sostiene Pereira", avevo poco più di vent'anni. Lo lessi, ma di quella lettura ho serbato solo qualche impressione: mi ricordo Lisbona, una caldissima estate, tanta luce e la figura di Pereira, una persona malinconica ed anziana. 
Avevo, allora, forse troppa energia, troppe cose a cui pensare e da realizzare per farmi pervadere dal racconto di Tabucchi.
A quell'epoca, per esempio, uno dei miei libri preferiti era "Un uomo" di Oriana Fallaci. Ero stregata da Panagulis, dalla sua vitalità e tragicità, dal suo rapporto con Oriana così passionale, fisico, al limite del violento e pensavo che una vita, per essere degna di essere vissuta, dovesse assomigliare a quella narrata dalla Fallaci.
Fortunatamente sono invecchiata. Adesso sono in grado di godermi un libro come "Sostiene Pereira". 
Con questo non voglio dire che è necessario avere più di quarant'anni, essere vedovi e senza figli per capire il delicato reticolo di rimpianti, nostalgia e solitudine che Tabucchi tratteggia così realisticamente ma avere quel po' di familiarità con l'idea della morte che arriva solo dopo aver vissuto un certo numero di anni, secondo me, aiuta.

A vent'anni dalla pubblicazione del romanzo originale, questa edizione in graphic novel, con l'adattamento dei testi di Marino Magliani e i disegni di Marco D'Aponte, è un omaggio a Tabucchi e al suo racconto di resistenza e di ricerca.
Se ciascun uomo ha la possibilità di dare un senso alla propria vita, anche se pochissimi sono quelli che riconoscono questa opportunità e la percorrono, lo scrittore, secondo Tabucchi, è colui che è in grado e un po' ha anche il dovere, di rendere universali queste vite e il loro senso.
Dice Tabucchi che il personaggio di Pereira è venuto a cercarlo quando, nel 1992, lesse della morte di un vecchio giornalista che, durante la dittatura di Salazar, aggirando i controlli della censura, riuscì a far pubblicare un articolo di forte critica al regime. Il giornalista dovette poi abbandonare il Portogallo e morì anni dopo senza che nessuno lo ricordasse.
"Sostiene Pereira" non è una storia di eroismo o di azioni eclatanti, come quelle di tanti eroi della Resistenza. È invece la narrazione di una presa di coscienza di un anziano giornalista, vedovo, che, come uscendo da un limbo esistenziale in cui i pensieri più ricorrenti erano quelli intorno alla morte e al passato, si accorge, frequentando, inizialmente per caso, una coppia di giovani dissidenti al regime filo fascista di Salazar, che ciò che sta accadendo intorno a lui non lo lascia più indifferente. 
Da quel momento il mondo si ripopola. Non solo di personaggi alquanto spregevoli ma anche di uomini e donne, che a lungo Pereira aveva ignorati ed evitati, i cui valori ed emozioni concimano la sua trasformazione e rinascita.
Questo vecchio signore sovrappeso, affaticato, dagli occhi malinconici e buoni, disegnato in modo molto diverso da come lo ha interpretato Mastroianni nel film di Faenza (ciascuno potrà trovare il suo Pereira nell'una o nell'altra interpretazione, io lo ritrovo di più nel fumetto di Marco d'Aponte) decide, infine, di ricominciare a "frequentare il futuro". 
"Che bella espressione, disse Pereira, frequentare il futuro, che bella espressione, non mi sarebbe mai venuto in mente".
Rileggere "Sostiene Pereira" in fumetto, è stato un duplice piacere: quello infantile che mi accompagna sempre quando leggo fumetti e quello di riscoprire, attraverso questo capolavoro,  che la vita, volendo, riserva sorprese fino alla fine. Mi capita spesso di dimenticarmene.
Sara Merighi