Due
donne agli antipodi. Jennifer.
Giovane, bellissima, intelligentissima. Rapporto di coppia perfetto.
Astrofisica in carriera. Solida famiglia alle spalle, il padre pezzo
grosso in polizia. Mike.
Di mezza età, nome, voce e aspetto da uomo, poliziotta con la scorza
dura. Una relazione alla menopeggio, storie di alcolismo, violenza e
abusi. Queste due figure femminili un po’ schematiche si conoscono,
apparentemente persino si rispettano e c’è del bene tra loro.
La
perfettina si suicida e il genere si innesca, nei suoi canoni ben
rodati, perché sembra impossibile che Jennifer abbia motivi per
decidere di morire. Mike, con dolore, si trova ad indagare
in tutti gli eppure possibili,
perché c’è sempre un eppure a
muovere gli intrecci dei noir. Ma
questo è un libro di Amis, non un noir. Eppure il
lettore ci casca.
A grattar
via la superficie laccata saltano fuori sentimenti più umani e
meschini, mescolati al bene. Per esempio il fastidio di Jennifer nei
confronti delle persone problematiche, lei che sentiva il “dovere”
di essere di buon umore. Oppure l’invidia latente di Mike – donna
così rabberciata – spettatrice di una bellezza naturale,
sana, americana. In tutti i personaggi di questa storia, anche
gli sfuocati protagonisti maschili, emerge l’incapacità
di vedere l’altro e di riconoscerlo nella sua essenza. Dice
Mike di Jennifer: “Non vedeva nemmeno un barlume di intelligenza in
me? Non lo vedeva proprio? Non lo vede nessuno? Perché se mi
togliete l’intelligenza, se togliete l’intelligenza dalla mia
faccia, non mi lasciate gran che”. L’ultima parte del
romanzo si intitola proprio “L’occhio che vede”. Ed è l’occhio
umanissimo e in qualche modo risolutivo di Mike.
L’incapacità
di vedere permea tutta la società, sembra dirci Amis. Uno dei motivi
potrebbe essere l’abitudine
ad un dolore predigerito e mediato.
Tutto il libro è percorso da una riflessione metalinguistica,
una critica al cinema, alla televisione e alla spettacolarizzazione
del ruolo della polizia. Siamo una società che vive in un enorme
film poliziesco, dove il sangue è pomodoro e la logica che spiega la
morte è sempre perfettamente ricostruibile a ritroso. Siamo
assuefatti, comodi. Attendiamo fiduciosi le spiegazioni e non ci
interroghiamo, non guardiamo oltre. Siamo sempre disposti a farci
condurre per mano dallo scrittore di genere, noi lettori, perché è
facile e deresponsabilizzante.
Ma
se lo scrittore prende a prestito un genere e lo riempie di altro, si
resta un po’ sconcertati. Amis ci fa intravedere, ma sono
istanti, quello che vede Jennifer l’astrofisica. E anche
quello che non riesce a vedere. C’è la realtà spicciola e c’è
l’abisso dell’universo.
C’è la perfezione portata avanti fino alla fine e c’è l’umanità
fragile. C’è l’illusione del controllo.
Ed è qui che Amis si svela, si fa trovare.
***
Di
Amis avevo iniziato L’informazione e London
Fields.
Entrambi abbandonati. Questo libro l’ho preso perché consigliato
da una donna che stimo, pur non essendo appassionata del genere noir
e poliziesco. Forse ho fatto pace con Amis, potrei riprovarci.
Riferimenti:
Il Treno della notte
di M. Amis
Einaudi
Recensione di:
Silvia, 41, scrive all'ombra (link http://stimadidanno.wordpress.com/) e da seduta (link https://measachair.wordpress.com/). Ultimamente la sintesi le dona (link https://haikusedutisottolaluna.wordpress.com/)
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